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Le quattro casalinghe di Tokyo by Natsuo Kirino
4.0
« (...) Che razza di donna sei, Masako-san?»«Esattamente come te: ho un marito, un figlio, un lavoro, e sono sola».
Masako, Yaoyoi, Yoshie e Kuniko: quattro donne, non propriamente amiche, ma colleghe del turno notturno in una ditta che confeziona colazioni.
Ciascuna ha una situazione familiare tutt'altro che rosea e, per un motivo o per un altro, ha scelto il turno di notte, faticoso, ma ben pagato, e più facilmente conciliabile con le incombenze domestiche di una moglie o madre.
Una routine piatta e soffocante che viene improvvisamente rotta quando una di loro, ormai esasperata, uccide il marito, e coinvolge le altre nell'occultamento del cadavere.
"(...) c’è una bella differenza fra pensare una cosa e farla!» (...).«Sì, è diverso. Ma per qualche oscuro motivo qualcosa non ha funzionato con la piccola, e lei ha oltrepassato il limite. Pensi davvero che non possa succedere, maestra? (...)"
Perché accettino di venire invischiate nella sordida vicenda non è facile da spiegare: c'è chi lo fa per soldi e chi perché sente di essere l'unica in grado di occuparsene, e in qualche modo intravede un'occasione per sfuggire ad una vita che non le appartiene più.
E questo non è che l'inizio della loro progressiva discesa all'inferno.
Ottimo giallo, ma al di là della trama investigativa, ciò che più colpisce è come Natsuo Kirino riesca a dipingere dei ritratti femminili tutt'altro che edificanti, eppure estremamente realistici: è difficile simpatizzare con le quattro, eppure ciascuna di loro offre un'assaggio della condizione femminile in Giappone, in cui, però, anche le donne del più emancipato (spesso solo teoricamente) Occidente possono riconoscersi.
“Sei tu la donna, no, e allora mi prepari la colazione!”
Masako, forte e volitiva, è in grado di tener testa a qualsiasi uomo, e ciò che vorrebbe è proprio essere trattata come i suoi colleghi di sesso maschile, ma questa è un'ambizione che non le viene perdonata, e che la costringe a licenziarsi dopo 22 anni di duro lavoro in un istituto finanziario.
Yaoyoi, giovane, bella e ingenua, viene definita una madre e una moglie esemplare, eppure è proprio l'impegno che mette nell'occuparsi della famiglia la causa del disprezzo del marito, uomo che arriva a sperperare tutti i loro risparmi dietro ad una hostess e che vede la moglie come un costante rimprovero per le sue mancanze.
Yoshie è vedova, ormai sfiancata nel corpo e nello spirito: vive ai limiti dell'indigenza e deve occuparsi delle figlie e di una suocera invalida; nonostante si prodighi fin oltre le sue forze, tutto quello che fa è visto come dovuto: è una madre, quindi le figlie si sentono praticamente in diritto di sfruttarla fino all'ultima goccia; è una donna, quindi colei a cui vengono affidate le funzioni di "cura", e la suocera invalida può angariarla senza alcun rimorso.
Kuniko non è bella, e sfoga nelle sue frustrazioni nel cibo. E' avida e meschina, eppure il suo attaccamento al denaro e il suo circondarsi di cose costose e alla moda (sebbene quasi sempre delle imitazioni) è il modo che ha per cercare di placare le sue insicurezze, vittima anche lei di una società che vuole le donne sempre giovani, belle e al servizio dell'ego maschile.
“Lei è la madre, e quindi il cuore della famiglia”
Sono donne di oggi, tutte accomunate da un unico tratto: sono sole, ciascuna a suo modo, ma allo stesso tempo non così diversamente dalle altre.
E sono esasperate: basta poco perché ciascuna di loro superi quelli che credeva limiti invalicabili.
“(...) tutto quello che era accaduto lo doveva solo a se stessa, alla sua disperazione e al suo desiderio di libertà.”
Natsuo Kirino non ha paura di sporcarsi le mani, e affonda nei meandri più oscuri dell'animo umano e femminile in particolare, il tutto accompagnato dalla consapevolezza che nessuno si salverà davvero, e che la libertà alla fine non fa altro che coincidere con la solitudine, e per essa si dovrà pagare un prezzo davvero molto alto: guardare realmente in fondo a se stessi e accettare cosa si è veramente.
Ma forse, a volte, la notte è preferibile al giorno, e una vita al "contrario" migliore di una routine fatta di ordine e senso del dovere.
Con Le quattro casalinghe di Tokyo l'autrice si è aggiudicata il Premio della Associazione giapponese degli autori di romanzi polizieschi (日本推理作家協会賞 Nihon Suiri Sakka Kyōkai Shō) e la nomina agli Edgard Awards come Miglior Romanzo nel 2004.
Una lettura che scorre molto velocemente, in grado di catturare il lettore e tenerlo costantemente con il fiato sospeso, ma anche di farlo riflettere sulle tante solitudini contemporanee.
Masako, Yaoyoi, Yoshie e Kuniko: quattro donne, non propriamente amiche, ma colleghe del turno notturno in una ditta che confeziona colazioni.
Ciascuna ha una situazione familiare tutt'altro che rosea e, per un motivo o per un altro, ha scelto il turno di notte, faticoso, ma ben pagato, e più facilmente conciliabile con le incombenze domestiche di una moglie o madre.
Una routine piatta e soffocante che viene improvvisamente rotta quando una di loro, ormai esasperata, uccide il marito, e coinvolge le altre nell'occultamento del cadavere.
"(...) c’è una bella differenza fra pensare una cosa e farla!» (...).«Sì, è diverso. Ma per qualche oscuro motivo qualcosa non ha funzionato con la piccola, e lei ha oltrepassato il limite. Pensi davvero che non possa succedere, maestra? (...)"
Perché accettino di venire invischiate nella sordida vicenda non è facile da spiegare: c'è chi lo fa per soldi e chi perché sente di essere l'unica in grado di occuparsene, e in qualche modo intravede un'occasione per sfuggire ad una vita che non le appartiene più.
E questo non è che l'inizio della loro progressiva discesa all'inferno.
Ottimo giallo, ma al di là della trama investigativa, ciò che più colpisce è come Natsuo Kirino riesca a dipingere dei ritratti femminili tutt'altro che edificanti, eppure estremamente realistici: è difficile simpatizzare con le quattro, eppure ciascuna di loro offre un'assaggio della condizione femminile in Giappone, in cui, però, anche le donne del più emancipato (spesso solo teoricamente) Occidente possono riconoscersi.
“Sei tu la donna, no, e allora mi prepari la colazione!”
Masako, forte e volitiva, è in grado di tener testa a qualsiasi uomo, e ciò che vorrebbe è proprio essere trattata come i suoi colleghi di sesso maschile, ma questa è un'ambizione che non le viene perdonata, e che la costringe a licenziarsi dopo 22 anni di duro lavoro in un istituto finanziario.
Yaoyoi, giovane, bella e ingenua, viene definita una madre e una moglie esemplare, eppure è proprio l'impegno che mette nell'occuparsi della famiglia la causa del disprezzo del marito, uomo che arriva a sperperare tutti i loro risparmi dietro ad una hostess e che vede la moglie come un costante rimprovero per le sue mancanze.
Yoshie è vedova, ormai sfiancata nel corpo e nello spirito: vive ai limiti dell'indigenza e deve occuparsi delle figlie e di una suocera invalida; nonostante si prodighi fin oltre le sue forze, tutto quello che fa è visto come dovuto: è una madre, quindi le figlie si sentono praticamente in diritto di sfruttarla fino all'ultima goccia; è una donna, quindi colei a cui vengono affidate le funzioni di "cura", e la suocera invalida può angariarla senza alcun rimorso.
Kuniko non è bella, e sfoga nelle sue frustrazioni nel cibo. E' avida e meschina, eppure il suo attaccamento al denaro e il suo circondarsi di cose costose e alla moda (sebbene quasi sempre delle imitazioni) è il modo che ha per cercare di placare le sue insicurezze, vittima anche lei di una società che vuole le donne sempre giovani, belle e al servizio dell'ego maschile.
“Lei è la madre, e quindi il cuore della famiglia”
Sono donne di oggi, tutte accomunate da un unico tratto: sono sole, ciascuna a suo modo, ma allo stesso tempo non così diversamente dalle altre.
E sono esasperate: basta poco perché ciascuna di loro superi quelli che credeva limiti invalicabili.
“(...) tutto quello che era accaduto lo doveva solo a se stessa, alla sua disperazione e al suo desiderio di libertà.”
Natsuo Kirino non ha paura di sporcarsi le mani, e affonda nei meandri più oscuri dell'animo umano e femminile in particolare, il tutto accompagnato dalla consapevolezza che nessuno si salverà davvero, e che la libertà alla fine non fa altro che coincidere con la solitudine, e per essa si dovrà pagare un prezzo davvero molto alto: guardare realmente in fondo a se stessi e accettare cosa si è veramente.
Ma forse, a volte, la notte è preferibile al giorno, e una vita al "contrario" migliore di una routine fatta di ordine e senso del dovere.
Con Le quattro casalinghe di Tokyo l'autrice si è aggiudicata il Premio della Associazione giapponese degli autori di romanzi polizieschi (日本推理作家協会賞 Nihon Suiri Sakka Kyōkai Shō) e la nomina agli Edgard Awards come Miglior Romanzo nel 2004.
Una lettura che scorre molto velocemente, in grado di catturare il lettore e tenerlo costantemente con il fiato sospeso, ma anche di farlo riflettere sulle tante solitudini contemporanee.
La lotteria by Shirley Jackson
4.0
Shirley Jackson debutta nel 1948 sulle pagine del New Yorker con un racconto che ha fatto storia, La Lotteria.
L’anno successivo, questo e altri quattro racconti vengono pubblicati in un unico volume.
La prima edizione italiana (con il titolo Demoni amanti) risale al 1991; nel 2007 la Adelphi decide di ripubblicare l'opera con il titolo La lotteria.
Breve, eppure estremamente incisivo, La lotteria è uno di quei racconti perfetti, che fa si che il lettore si ritrovi in un crescendo di suspense quasi senza accorgersene.
E’ il 27 giugno e come ogni anno da tempo immemore, tutto è pronto per la lotteria.
Un villaggio come tanti, di appena trecento abitanti, dediti alle attività rurali: gli uomini si occupano dei campi e del bestiame, mentre le donne della casa. C’è un rigido sistema patriarcale, e per la consueta lotteria annuale è il capofamiglia a dover estrarre; laddove non ci fosse, tocca al figlio maggiore, e solo in caso di minori non ancora sedicenni, ecco allora che il compito può essere passato ad una donna.
All’inizio, il quadro che viene delineato è quello di una piccola comunità in fermento per quello che appare come uno dei pochi eventi significativi dell’anno, una pratica che abitualmente viene espletata in un paio d’ore.
Padri, madri e bambini un po’ troppo eccitati che devono essere tenuti a bada.
Solo quando l’estrazione comincia e va pian piano avanti, ecco che inizia a delinearsi cosa rappresenti in realtà, cosa ci sia in palio, e chi legge si trova ad assistere incredulo a quanto accade.
Shirley Jackson non ha mai avuto bisogno di “alzare la voce”, ed anche in questo caso non si smentisce: nulla viene davvero spiegato, ma alo stesso tempo non può essere frainteso.
E’ una lettura che non lascia indifferenti, e il senso di angoscia che trasmette non abbandona il lettore per molto tempo, insieme ad una sbigottita incredulità.
Gli altri tre racconti del libro sono:
- Lo sposo: una donna non più giovane si prepara al suo matrimonio;
- Il colloquio: una donna si rivolge ad un medico per un colloquio che la rassicuri su alcune stranezze del marito;
- Il fantoccio: due donne cenano insieme, ma lo spettacolo a cui assistono non è poi così gradevole.
Il colloquio e Il fantoccio, per quanto ben scritti, sono probabilmente facili da dimenticare; ne Lo sposo, la Jackson ancora una volta delinea efficacemente la psicologia femminile in semplici particolari, come i tanti preparativi di una donna che sente il peso dei suoi trentaquattro anni e per il giorno delle sue nozze è divisa tra il desiderio di essere bella e il non apparire ridicola con un vestito troppo giovanile per la sua età.
L’anno successivo, questo e altri quattro racconti vengono pubblicati in un unico volume.
La prima edizione italiana (con il titolo Demoni amanti) risale al 1991; nel 2007 la Adelphi decide di ripubblicare l'opera con il titolo La lotteria.
Breve, eppure estremamente incisivo, La lotteria è uno di quei racconti perfetti, che fa si che il lettore si ritrovi in un crescendo di suspense quasi senza accorgersene.
E’ il 27 giugno e come ogni anno da tempo immemore, tutto è pronto per la lotteria.
Un villaggio come tanti, di appena trecento abitanti, dediti alle attività rurali: gli uomini si occupano dei campi e del bestiame, mentre le donne della casa. C’è un rigido sistema patriarcale, e per la consueta lotteria annuale è il capofamiglia a dover estrarre; laddove non ci fosse, tocca al figlio maggiore, e solo in caso di minori non ancora sedicenni, ecco allora che il compito può essere passato ad una donna.
All’inizio, il quadro che viene delineato è quello di una piccola comunità in fermento per quello che appare come uno dei pochi eventi significativi dell’anno, una pratica che abitualmente viene espletata in un paio d’ore.
Padri, madri e bambini un po’ troppo eccitati che devono essere tenuti a bada.
Solo quando l’estrazione comincia e va pian piano avanti, ecco che inizia a delinearsi cosa rappresenti in realtà, cosa ci sia in palio, e chi legge si trova ad assistere incredulo a quanto accade.
Shirley Jackson non ha mai avuto bisogno di “alzare la voce”, ed anche in questo caso non si smentisce: nulla viene davvero spiegato, ma alo stesso tempo non può essere frainteso.
E’ una lettura che non lascia indifferenti, e il senso di angoscia che trasmette non abbandona il lettore per molto tempo, insieme ad una sbigottita incredulità.
Gli altri tre racconti del libro sono:
- Lo sposo: una donna non più giovane si prepara al suo matrimonio;
- Il colloquio: una donna si rivolge ad un medico per un colloquio che la rassicuri su alcune stranezze del marito;
- Il fantoccio: due donne cenano insieme, ma lo spettacolo a cui assistono non è poi così gradevole.
Il colloquio e Il fantoccio, per quanto ben scritti, sono probabilmente facili da dimenticare; ne Lo sposo, la Jackson ancora una volta delinea efficacemente la psicologia femminile in semplici particolari, come i tanti preparativi di una donna che sente il peso dei suoi trentaquattro anni e per il giorno delle sue nozze è divisa tra il desiderio di essere bella e il non apparire ridicola con un vestito troppo giovanile per la sua età.
Lizzie by Shirley Jackson
4.0
“Elizabeth Richmond, ventitré anni, non aveva amici, né genitori, né conoscenti, e nessun progetto che non fosse sopportare l’ineludibile intervallo antecedente la sua dipartita stando il meno male possibile”
“Elizabeth era così poco interessante da non meritare nemmeno un soprannome; e mentre i vivi, alle prese giorno dopo giorno coi frammenti e le sudicie inezie di un noioso passato o con la mancanza di spazio, conservavano un precario controllo sul proprio carattere individuale e la propria identità, lei restò senza nome; la chiamavano Elizabeth o Miss Richmond perché così si era presentata il giorno in cui aveva cominciato a lavorare lì e forse, se fosse caduta nel pozzo, ci si sarebbe accorti della sua assenza solo perché la targhetta dove c’era scritto Miss Elizabeth Richmond, donazione anonima, valore indefinito, sarebbe rimasta priva dell’oggetto corrispondente.”
Una ragazza anonima, che passa del tutto inosservata e che trascorre le sue giornate tra la routine lavorativa e il solito tran tran domestico in compagnia della vecchia zia.
“Non si era mai pentita nemmeno per un attimo di essersi fatta carico della nipote dopo la morte di sua sorella, poiché oltre a essere una ragazza bruttina Elizabeth era silenziosa e poco invadente”
“Vecchiaccia schifosa, pensò Elizabeth, e questa espressione la lasciò di stucco: la zia Morgen era stata sempre molto buona con lei. «Vecchiaccia schifosa» e si rese conto che stavolta aveva parlato ad alta voce. T’immagini se mi sente? pensò e ridacchiò. «Vecchiaccia schifosa» ripeté a voce altissima.«Mi hai chiamato, cocca?».«No, grazie, zia Morgen».”
La vita di Elizabeth Richmond è talmente incolore che persino delle lettere anonime, piene di ingiustificato astio, rappresentano un “piacevole” diversivo.
Ma questo non è che l’inizio, dato che strani eventi cominciano a susseguirsi, senza che Elizabeth se ne renda minimamente conto, sebbene chi la circondi cominci ad essere sempre più perplesso. Per Lizzie ci sono solo degli sgradevoli e sempre più frequenti mal di testa e dolori alla schiena.
Da qui, la decisione di rivolgersi al dottor Victor Wright, dedito alla psicoanalisi e all’ipnosi; ciò che l’anziano medico scopre nel corso delle sue sedute è davvero sbalorditivo, ossia un raro caso di personalità multipla:
“C’era R1, nervosa, afflitta da dolori lancinanti, torturata dalla paura, oppressa dall’imbarazzo, modesta, chiusa, e riservata fino alla paralisi verbale. C’era R2, che forse aveva il carattere che Miss R. avrebbe potuto avere in condizioni normali: una ragazza serena, tutta sorrisi, che rispondeva alle mie domande con sincerità e con serio raccoglimento, graziosa e rilassata, senza le rughe d’ansia che solcavano il viso della prima; R2 non pativa dolori fisici, poteva solo commiserare con dolcezza i tormenti di R1. E poi c’era R3, che, in un certo senso, era R2 all’eccesso: dove R2 era rilassata, R3 era sfrenata; dove R2 era schietta, R3 era insolente; dove R2 era piacevole e graziosa, R3 era dozzinale e chiassosa. Inoltre ciascuna delle tre aveva dei tratti che la rendevano subito riconoscibile: R1, che avevo conosciuto per prima, era, come si sa, timorosa, timida e goffa al punto da risultare poco attraente; R2 era amabile e seducente; R3 era una maschera deformata dalla volgarità. Il mite e fugace sorriso di R1, il viso aperto e ilare di R2 diventavano in R3 il ghigno subdolo o lo strepito brutale di una risata grossolana”
“Elizabeth la torpida, la stupida, l’inarticolata, ma in qualche modo anche la più stabile, giacché era rimasta lei a tirare avanti quando le altre si erano inabissate; Beth, dolce e sensibile; Betsy, irresponsabile e smodata; e Bess, arrogante e grossolana”
A Wright l’arduo compito di cercare di ricostruire il vero e completo io di Elizabeth, ostacolato dalla continua lotta intestina tra le varie personalità: le più deboli rischiano costantemente di soccombere, mentre le più forti combattono con le unghie e con i denti per affermarsi e annullare le altre.
“Mi vedevo (...) come un Frankenstein che ha per le mani il materiale necessario per costruire un mostro”
“(...) sono un mascalzone, per aver creato alla leggera, e un malvagio, per aver distrutto senza pietà”
Il racconto si dipana alternando alcuni punti di vista: c’è la (prolissa e a talvolta astrusa) prima persona del dottor Wright, ma anche la terza persona che ci offre la (parziale) visione di Lizzie e Betsy, e persino della zia Morgen.
Shirley Jackson sa gestire molto bene il passaggio dall’una alla altra, e in questo modo rende perfettamente l’idea di una realtà sfaccettata di cui si possono cogliere solo alcuni aspetti; solo assemblandoli insieme è possibile una visione più ampia.
Ovviamente, come solito con la Jackson, non manca un continuo stato di tensione, in attesa dell’evolversi degli eventi, un qualcosa che ormai è stato innescato e non potrà essere fermato prima del raggiungimento del climax con tutte le conseguenze del caso.
La forza di un romanzo come Lizzie, però, non è solo nella suspense derivante dallo scontro tra le varie personalità della protagonista e dal mistero circa quanto accaduto in passato e che ha portato alla frammentazione, ma è nella capacità della Jackson di delineare psicologie femminili credibili.
In fondo, c’è un sottile filo rosso che unisce tutte le sue eroine, da Mary Katherine e Connie (Abbiamo sempre vissuto nel castello) a Eleanor (L’Incubo di Hill House), fino ad arrivare alle tante sfaccettature di Elizabeth e alla stessa zia Morgen, nonché alla prima Elizabeth Richmond (Jones da nubile), figura enigmatica che non compare mai direttamente sulla scena ma a cui tutto si riconduce.
Abbiamo sempre di fronte delle donne che appaiono come prigioniere della propria vita, desiderose di fuggire, ma alla fin fine incapaci del passo decisivo: Morgen è una donna ormai anziana, imbruttita nel fisico e nello spirito, da sempre schiacciata da una sorella fin troppo bella, e che spesso e volentieri trova conforto nel brandy; Lizzie è debole e apatica; Beth dolce, ma lamentosa e totalmente incapace; Betsy - analogamente a Mary Katherine - è ancora ferma alla sua infanzia, e passa le sue giornate ad orchestrare scherzi malevoli e puerili; Bess ha fatto suoi gli aspetti più negativi del carattere della madre, a cui è stata legata da un rapporto di amore e odio, ed in questo caso si ricalca, in parte, la vicenda di Eleanor.
Figlie, sorelle, madri, in altre parole, donne dai legami complicati, spesso a causa di uomini.
Lizzie è quindi il primo romanzo dedicato al tema del disturbo dissociativo dell’identità, ma è anche uno spaccato della condizione femminile dell’epoca, in bilico tra passato e futuro, ancora incapace di liberarsi da imposti modelli comportamentali, con il conseguente inevitabile dissidio interiore.
Il finale ha un che di agrodolce, con una donna nuova, per la prima volta dopo tanto tempo “sola”, ma svuotata emotivamente, che ha ancora una lunga strada di fronte a se per raggiungere, se mai sarà possibile, la completezza.
“Elizabeth era così poco interessante da non meritare nemmeno un soprannome; e mentre i vivi, alle prese giorno dopo giorno coi frammenti e le sudicie inezie di un noioso passato o con la mancanza di spazio, conservavano un precario controllo sul proprio carattere individuale e la propria identità, lei restò senza nome; la chiamavano Elizabeth o Miss Richmond perché così si era presentata il giorno in cui aveva cominciato a lavorare lì e forse, se fosse caduta nel pozzo, ci si sarebbe accorti della sua assenza solo perché la targhetta dove c’era scritto Miss Elizabeth Richmond, donazione anonima, valore indefinito, sarebbe rimasta priva dell’oggetto corrispondente.”
Una ragazza anonima, che passa del tutto inosservata e che trascorre le sue giornate tra la routine lavorativa e il solito tran tran domestico in compagnia della vecchia zia.
“Non si era mai pentita nemmeno per un attimo di essersi fatta carico della nipote dopo la morte di sua sorella, poiché oltre a essere una ragazza bruttina Elizabeth era silenziosa e poco invadente”
“Vecchiaccia schifosa, pensò Elizabeth, e questa espressione la lasciò di stucco: la zia Morgen era stata sempre molto buona con lei. «Vecchiaccia schifosa» e si rese conto che stavolta aveva parlato ad alta voce. T’immagini se mi sente? pensò e ridacchiò. «Vecchiaccia schifosa» ripeté a voce altissima.«Mi hai chiamato, cocca?».«No, grazie, zia Morgen».”
La vita di Elizabeth Richmond è talmente incolore che persino delle lettere anonime, piene di ingiustificato astio, rappresentano un “piacevole” diversivo.
Ma questo non è che l’inizio, dato che strani eventi cominciano a susseguirsi, senza che Elizabeth se ne renda minimamente conto, sebbene chi la circondi cominci ad essere sempre più perplesso. Per Lizzie ci sono solo degli sgradevoli e sempre più frequenti mal di testa e dolori alla schiena.
Da qui, la decisione di rivolgersi al dottor Victor Wright, dedito alla psicoanalisi e all’ipnosi; ciò che l’anziano medico scopre nel corso delle sue sedute è davvero sbalorditivo, ossia un raro caso di personalità multipla:
“C’era R1, nervosa, afflitta da dolori lancinanti, torturata dalla paura, oppressa dall’imbarazzo, modesta, chiusa, e riservata fino alla paralisi verbale. C’era R2, che forse aveva il carattere che Miss R. avrebbe potuto avere in condizioni normali: una ragazza serena, tutta sorrisi, che rispondeva alle mie domande con sincerità e con serio raccoglimento, graziosa e rilassata, senza le rughe d’ansia che solcavano il viso della prima; R2 non pativa dolori fisici, poteva solo commiserare con dolcezza i tormenti di R1. E poi c’era R3, che, in un certo senso, era R2 all’eccesso: dove R2 era rilassata, R3 era sfrenata; dove R2 era schietta, R3 era insolente; dove R2 era piacevole e graziosa, R3 era dozzinale e chiassosa. Inoltre ciascuna delle tre aveva dei tratti che la rendevano subito riconoscibile: R1, che avevo conosciuto per prima, era, come si sa, timorosa, timida e goffa al punto da risultare poco attraente; R2 era amabile e seducente; R3 era una maschera deformata dalla volgarità. Il mite e fugace sorriso di R1, il viso aperto e ilare di R2 diventavano in R3 il ghigno subdolo o lo strepito brutale di una risata grossolana”
“Elizabeth la torpida, la stupida, l’inarticolata, ma in qualche modo anche la più stabile, giacché era rimasta lei a tirare avanti quando le altre si erano inabissate; Beth, dolce e sensibile; Betsy, irresponsabile e smodata; e Bess, arrogante e grossolana”
A Wright l’arduo compito di cercare di ricostruire il vero e completo io di Elizabeth, ostacolato dalla continua lotta intestina tra le varie personalità: le più deboli rischiano costantemente di soccombere, mentre le più forti combattono con le unghie e con i denti per affermarsi e annullare le altre.
“Mi vedevo (...) come un Frankenstein che ha per le mani il materiale necessario per costruire un mostro”
“(...) sono un mascalzone, per aver creato alla leggera, e un malvagio, per aver distrutto senza pietà”
Il racconto si dipana alternando alcuni punti di vista: c’è la (prolissa e a talvolta astrusa) prima persona del dottor Wright, ma anche la terza persona che ci offre la (parziale) visione di Lizzie e Betsy, e persino della zia Morgen.
Shirley Jackson sa gestire molto bene il passaggio dall’una alla altra, e in questo modo rende perfettamente l’idea di una realtà sfaccettata di cui si possono cogliere solo alcuni aspetti; solo assemblandoli insieme è possibile una visione più ampia.
Ovviamente, come solito con la Jackson, non manca un continuo stato di tensione, in attesa dell’evolversi degli eventi, un qualcosa che ormai è stato innescato e non potrà essere fermato prima del raggiungimento del climax con tutte le conseguenze del caso.
La forza di un romanzo come Lizzie, però, non è solo nella suspense derivante dallo scontro tra le varie personalità della protagonista e dal mistero circa quanto accaduto in passato e che ha portato alla frammentazione, ma è nella capacità della Jackson di delineare psicologie femminili credibili.
In fondo, c’è un sottile filo rosso che unisce tutte le sue eroine, da Mary Katherine e Connie (Abbiamo sempre vissuto nel castello) a Eleanor (L’Incubo di Hill House), fino ad arrivare alle tante sfaccettature di Elizabeth e alla stessa zia Morgen, nonché alla prima Elizabeth Richmond (Jones da nubile), figura enigmatica che non compare mai direttamente sulla scena ma a cui tutto si riconduce.
Abbiamo sempre di fronte delle donne che appaiono come prigioniere della propria vita, desiderose di fuggire, ma alla fin fine incapaci del passo decisivo: Morgen è una donna ormai anziana, imbruttita nel fisico e nello spirito, da sempre schiacciata da una sorella fin troppo bella, e che spesso e volentieri trova conforto nel brandy; Lizzie è debole e apatica; Beth dolce, ma lamentosa e totalmente incapace; Betsy - analogamente a Mary Katherine - è ancora ferma alla sua infanzia, e passa le sue giornate ad orchestrare scherzi malevoli e puerili; Bess ha fatto suoi gli aspetti più negativi del carattere della madre, a cui è stata legata da un rapporto di amore e odio, ed in questo caso si ricalca, in parte, la vicenda di Eleanor.
Figlie, sorelle, madri, in altre parole, donne dai legami complicati, spesso a causa di uomini.
Lizzie è quindi il primo romanzo dedicato al tema del disturbo dissociativo dell’identità, ma è anche uno spaccato della condizione femminile dell’epoca, in bilico tra passato e futuro, ancora incapace di liberarsi da imposti modelli comportamentali, con il conseguente inevitabile dissidio interiore.
Il finale ha un che di agrodolce, con una donna nuova, per la prima volta dopo tanto tempo “sola”, ma svuotata emotivamente, che ha ancora una lunga strada di fronte a se per raggiungere, se mai sarà possibile, la completezza.
L'ospite by Sarah Waters
4.0
Definito da più parti come un "romanzo gotico", L'ospite (The Little Stranger) di Sarah Waters certo non lo è come collocazione storica, risalendo solo al 2009, ma lo è come atmosfera: un'isolata dimora di campagna, ormai in decadenza come la stessa famiglia che la abita, che pare nascondere oscuri segreti, oltre che esercitare un sinistro fascino su chi le gravita attorno.
SPOILER ALERT
La vicenda viene narrata attraverso gli occhi del dottor Faraday, un semplice medico di campagna di umili origini, che da bambino, in occasione di una festa locale aveva avuto modo di entrare nella casa, rimanendone conquistato.
Sono passati trent'anni da quel giorno, e la seconda visita di Faraday a Hundreds Hall è per motivi professionali: Betty, la giovane cameriera, arrivata solo da pochi giorni, lamenta forti dolori di stomaco. Faraday non impiega molto per capire che si tratta solo di una messa in scena: una ragazzina in cerca di attenzioni, e con nostalgia di casa; Betty, però, è pronta a giurare che non è solo quello, che c'è davvero qualcosa, qualcosa legato a quella casa e che la spaventa a morte....
Pian piano Faraday si trova sempre più coinvolto nelle vicende di Hundreds Hall e della famiglia Ayres, forse all'inizio per semplice simpatia umana (la morte della prima figlia, Susan, di soli sette anni, l'incidente di guerra dell'erede maschio Roderick, che lo ha segnato nel corpo e nello spirito, le infinite difficoltà economiche), poi per quello che interpreta come amore nei confronti di Caroline Ayres, ragazza indubbiamente intelligente, modo gentile per non definirla esplicitamente "bruttina".
Nel frattempo la situazione economica si fa sempre più disastrosa, e Roderick Usher non riesce più a sopportare il peso delle responsabilità, perdendo il lume della ragione. O almeno è quello di cui Faraday è convinto, mentre Roderick parla di un'"infezione" che si aggira per la casa e su cui deve vegliare per proteggere madre e sorella. Alla fine un prostrassimo Roderick viene allontanato da Hundreds Hall per ricevere le cure adeguate, ma l'incubo non è che appena iniziato: la stessa signora Ayres comincia ad avvertire una presenza, forse invocata da lei stessa, mai ripresasi del tutto dopo la morte della prima amatissima figlia, e Caroline si fa sempre più convinta che ci sia una forza sovrannaturale dietro quanto sta avvenendo, responsabile prima di piccoli eventi ma poi di episodi sempre più terrificanti. Faraday cerca di tenere insieme i pezzi, ma senza successo, e la tragedia si compie.
L'efficacia della narrazione sta nel far coincidere il punto di vista del lettore con quello di un "estraneo", che dovrebbero rimanere obiettivo di fronte alle vicende che coinvolgono Hundreds Hall, ma in realtà finisce per esserne coinvolto sempre più, cambiando profondamente, e costringendo il lettore stesso a prenderne le distanze: il razionale e generoso Faraday, infatti, appare progressivamente piuttosto che innamorato, ossessionato da Caroline, e forse la ragazza non è altro che un surrogato di quello che è il suo vero interesse, ossia Hundreds Hall, la casa che lo stregato da quando era un ragazzino, un little stranger che si aggirava furtivo tra le sue stanze, sperando di non essere scoperto.
Non è il rifiuto della ragazza ad atterrirlo, quanto piuttosto l'idea di non poter entrare in possesso della Hall, una casa in rovina che certamente non sarebbero mai stati in grado di mantenere, e a cui eppure ostinatamente e irrazionalmente non vuole rinunciare.
Ciò che gli appare imperdonabile, il vero "tradimento", è che Caroline voglia lasciare Hundreds Hall.
La casa è furba e sa sfruttare le debolezze di ognuno (il senso di inadeguatezza di Roderick, l'amore della signora Ayres per la piccola Susan, il legame tra Gyp e Caroline), e nel caso di Faraday è la sua ricerca di un luogo a cui appartenere: non si riconosce ormai più nella classe sociale di origine, ma allo stesso tempo quell'aristocrazia di campagna a cui ha sempre aspirato, per quanto in rovina, lo rifiuta, abbarbicata com'è alle superate convenzioni di un tempo. Hundreds Hall è il modo per trovare finalmente il proprio posto, ma alla fine al dottore non resta che aggirarsi ancora una volta solitario tra quelle decadenti stanze.
L'Ospite è così un thriller sovrannaturale, con venature horror, ma anche un romanzo storico che mette in scena la caduta di un'intera classe sociale, come pure lo smarrimento di un'intera società, costretta a cambiare profondamente dopo lo sconvolgimento del secondo conflitto mondiale.
Furbescamente i tanti misteri di Hundreds Hall non vengono rivelati, lasciando al lettore la facoltà di interpretare come preferisce i fatti (l'incidente della piccola Gillian, Caroline che dopo la morte ella madre afferma di non poter perdonare di essere stata "usata" contro la propria volontà, Faraday che ha delle visioni - ricordi?- degli ultimi istanti di vita di Caroline, e così via).
Un romanzo che si legge tutto d'un fiato, nonostante le oltre 500 pagine.
Consigliato.
SPOILER ALERT
La vicenda viene narrata attraverso gli occhi del dottor Faraday, un semplice medico di campagna di umili origini, che da bambino, in occasione di una festa locale aveva avuto modo di entrare nella casa, rimanendone conquistato.
Sono passati trent'anni da quel giorno, e la seconda visita di Faraday a Hundreds Hall è per motivi professionali: Betty, la giovane cameriera, arrivata solo da pochi giorni, lamenta forti dolori di stomaco. Faraday non impiega molto per capire che si tratta solo di una messa in scena: una ragazzina in cerca di attenzioni, e con nostalgia di casa; Betty, però, è pronta a giurare che non è solo quello, che c'è davvero qualcosa, qualcosa legato a quella casa e che la spaventa a morte....
Pian piano Faraday si trova sempre più coinvolto nelle vicende di Hundreds Hall e della famiglia Ayres, forse all'inizio per semplice simpatia umana (la morte della prima figlia, Susan, di soli sette anni, l'incidente di guerra dell'erede maschio Roderick, che lo ha segnato nel corpo e nello spirito, le infinite difficoltà economiche), poi per quello che interpreta come amore nei confronti di Caroline Ayres, ragazza indubbiamente intelligente, modo gentile per non definirla esplicitamente "bruttina".
Nel frattempo la situazione economica si fa sempre più disastrosa, e Roderick Usher non riesce più a sopportare il peso delle responsabilità, perdendo il lume della ragione. O almeno è quello di cui Faraday è convinto, mentre Roderick parla di un'"infezione" che si aggira per la casa e su cui deve vegliare per proteggere madre e sorella. Alla fine un prostrassimo Roderick viene allontanato da Hundreds Hall per ricevere le cure adeguate, ma l'incubo non è che appena iniziato: la stessa signora Ayres comincia ad avvertire una presenza, forse invocata da lei stessa, mai ripresasi del tutto dopo la morte della prima amatissima figlia, e Caroline si fa sempre più convinta che ci sia una forza sovrannaturale dietro quanto sta avvenendo, responsabile prima di piccoli eventi ma poi di episodi sempre più terrificanti. Faraday cerca di tenere insieme i pezzi, ma senza successo, e la tragedia si compie.
L'efficacia della narrazione sta nel far coincidere il punto di vista del lettore con quello di un "estraneo", che dovrebbero rimanere obiettivo di fronte alle vicende che coinvolgono Hundreds Hall, ma in realtà finisce per esserne coinvolto sempre più, cambiando profondamente, e costringendo il lettore stesso a prenderne le distanze: il razionale e generoso Faraday, infatti, appare progressivamente piuttosto che innamorato, ossessionato da Caroline, e forse la ragazza non è altro che un surrogato di quello che è il suo vero interesse, ossia Hundreds Hall, la casa che lo stregato da quando era un ragazzino, un little stranger che si aggirava furtivo tra le sue stanze, sperando di non essere scoperto.
Non è il rifiuto della ragazza ad atterrirlo, quanto piuttosto l'idea di non poter entrare in possesso della Hall, una casa in rovina che certamente non sarebbero mai stati in grado di mantenere, e a cui eppure ostinatamente e irrazionalmente non vuole rinunciare.
Ciò che gli appare imperdonabile, il vero "tradimento", è che Caroline voglia lasciare Hundreds Hall.
La casa è furba e sa sfruttare le debolezze di ognuno (il senso di inadeguatezza di Roderick, l'amore della signora Ayres per la piccola Susan, il legame tra Gyp e Caroline), e nel caso di Faraday è la sua ricerca di un luogo a cui appartenere: non si riconosce ormai più nella classe sociale di origine, ma allo stesso tempo quell'aristocrazia di campagna a cui ha sempre aspirato, per quanto in rovina, lo rifiuta, abbarbicata com'è alle superate convenzioni di un tempo. Hundreds Hall è il modo per trovare finalmente il proprio posto, ma alla fine al dottore non resta che aggirarsi ancora una volta solitario tra quelle decadenti stanze.
L'Ospite è così un thriller sovrannaturale, con venature horror, ma anche un romanzo storico che mette in scena la caduta di un'intera classe sociale, come pure lo smarrimento di un'intera società, costretta a cambiare profondamente dopo lo sconvolgimento del secondo conflitto mondiale.
Furbescamente i tanti misteri di Hundreds Hall non vengono rivelati, lasciando al lettore la facoltà di interpretare come preferisce i fatti (l'incidente della piccola Gillian, Caroline che dopo la morte ella madre afferma di non poter perdonare di essere stata "usata" contro la propria volontà, Faraday che ha delle visioni - ricordi?- degli ultimi istanti di vita di Caroline, e così via).
Un romanzo che si legge tutto d'un fiato, nonostante le oltre 500 pagine.
Consigliato.
Abbiamo sempre vissuto nel castello by Shirley Jackson
4.0
Cercando notizie su Shirley Jackson, quel che viene immancabilmente ricordato è l'omaggio di Stephen King a colei che riconosce come maestra dell'horror moderno (insieme a nomi come Matheson e Levin) nella dedica de L'Incendiaria:
"In memory of Shirley Jackson, who never needed to raise her voice."
E proprio da Stephen King e dal suo Danse Macabre si ricava una definizione di horror perfettamente calzante nel descrivere Abbiamo sempre vissuto nel castello:
The horror film is an invitation to indulge in deviant, antisocial behaviour by proxy – to commit gratuitous acts of violence, indulge our puerile dreams of power, to give into our most craven fears. Perhaps more than anything else, the horror story or horror movie says it’s OK to join the mob, to become the total tribal being, to destroy the outsider.
King parla di film e ha in mente un altro racconto della Jackson, La Lotteria, ma quanto scritto calza a pennello anche al mondo che viene delineato attraverso le parole di Mary Katherine,o, più affettuosamente, Merricat, la voce narrante della storia:
"Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l’Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti."
Già nell'incipit, in fondo, ci viene fornita la soluzione al mistero che aleggia sullo sfondo, la morte dei Blackwood una sera di sei anni prima, ed esplicitarla in quella che dovrebbe essere la rivelazione finale è quasi un surplus.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Due sorelle ed un anziano zio che vivono praticamente reclusi nella villa di famiglia, guardati con astio e livore dagli abitanti del paese: tra gli agiati e sdegnosi Blackwood e gli "altri" non è mai corso buon sangue, ma la situazione è ulteriormente degenerata dopo la morte per avvelenamento della maggior parte della famiglia. Constance, la figlia maggiore, colei che ha preparato quell'ultimo fatale pasto, è stata accusata di omicidio, ma assolta durante il processo; ciò però non ha allontanato i sospetti e gli sguardi malevoli dei compaesani, tanto che sono ormai sei anni che non esce più di casa. È Merricat, che all'epoca dei fatti aveva solo dodici anni, a mantenere una sorta di labile rapporto con l'esterno, recandosi due volte la settimana in paese per la spesa. Così come ogni oggetto della casa ha il suo posto che non può essere cambiato, le giornate delle due sorelle sono scandite da immancabili appuntamenti fissi, e proprio in quella routine sempre uguale a se stessa trovano la loro ragion d'essere, custodi di un tempo ormai andato, tramandato di generazione in generazione. Qualcosa però sta per cambiare: a Constance l'idea di uscire dalla casa non sembra più incutere la paura di un tempo, e l'arrivo del cugino Charles potrebbe alterare i consolidati equilibri.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Un'atmosfera inquietante, che diviene pian piano sempre più angosciante, accompagna il lettore pagina dopo pagina, e con grande maestria la Jackson porta avanti il racconto centellinando le informazioni su quella fatidica notte; il fatto stesso di scegliere come portavoce del resoconto del tragico evento lo zio Julian, l'anziano invalido sopravvissuto si al veleno, ma indubbiamente segnato nel corpo e nella mente, tanto da affermare un momento di ricordare perfettamente tutto l'accaduto, e il momento immediatamente successivo di non essere sicuro che sia successo o meno, contribuisce a lasciare costantemente nel dubbio.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Ma è soprattutto la lucida follia, fatta di rituali scaramantici e deliri di onnipotenza, a creare la suspense: quanto innescato sei anni prima, potrebbe scatenarsi di nuovo, e chi sarà stavolta la vittima?
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Viene così a crearsi una sensazione di pericolo costante all'interno della casa, a cui si aggiunge il pericolo che viene dall'esterno, da quei paesani con cui i Blackwood non hanno mai avuto un buon rapporto, e che non perdono occasione di manifestare il loro odio.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Non c'è nessuna via d'uscita: non si è davvero al sicuro né all'interno né all'esterno, schiacciati tra un Male tanto infantile quanto letale, e un Male adulto, cosciente che non esita a farsi violenza cieca.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Non c'è nessun salvatore, perché a prevalere è l'avidità, e l'amore stesso è morbosamente possessivo o colpevolmente indulgente.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Paradossalmente, però, nel finale viene tutto ribaltato in un antinomico happy ending: l'idea di un ritorno alla "normalità", di un abbandono di quella autoimposta segregazione viene definitivamente accantonata, e nella accettazione della reclusione si trova l'unica possibile felicità; solo in quel mondo creato dalla fantasia malata di una bambina che non è mai cresciuta, fatto di magie, rituali e scaramanzie, si è davvero al "sicuro", e Marricat è riuscita finalmente a "salvare" la sua adorata Connie.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
La prosa è estremamente scorrevole e il romanzo si divora in poco meno di un pomeriggio.
Una lettura sicuramente consigliata a chi è alla ricerca di un Gotico moderno, un horror che "non ha bisogno di alzare la voce".
"In memory of Shirley Jackson, who never needed to raise her voice."
E proprio da Stephen King e dal suo Danse Macabre si ricava una definizione di horror perfettamente calzante nel descrivere Abbiamo sempre vissuto nel castello:
The horror film is an invitation to indulge in deviant, antisocial behaviour by proxy – to commit gratuitous acts of violence, indulge our puerile dreams of power, to give into our most craven fears. Perhaps more than anything else, the horror story or horror movie says it’s OK to join the mob, to become the total tribal being, to destroy the outsider.
King parla di film e ha in mente un altro racconto della Jackson, La Lotteria, ma quanto scritto calza a pennello anche al mondo che viene delineato attraverso le parole di Mary Katherine,o, più affettuosamente, Merricat, la voce narrante della storia:
"Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l’Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti."
Già nell'incipit, in fondo, ci viene fornita la soluzione al mistero che aleggia sullo sfondo, la morte dei Blackwood una sera di sei anni prima, ed esplicitarla in quella che dovrebbe essere la rivelazione finale è quasi un surplus.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Due sorelle ed un anziano zio che vivono praticamente reclusi nella villa di famiglia, guardati con astio e livore dagli abitanti del paese: tra gli agiati e sdegnosi Blackwood e gli "altri" non è mai corso buon sangue, ma la situazione è ulteriormente degenerata dopo la morte per avvelenamento della maggior parte della famiglia. Constance, la figlia maggiore, colei che ha preparato quell'ultimo fatale pasto, è stata accusata di omicidio, ma assolta durante il processo; ciò però non ha allontanato i sospetti e gli sguardi malevoli dei compaesani, tanto che sono ormai sei anni che non esce più di casa. È Merricat, che all'epoca dei fatti aveva solo dodici anni, a mantenere una sorta di labile rapporto con l'esterno, recandosi due volte la settimana in paese per la spesa. Così come ogni oggetto della casa ha il suo posto che non può essere cambiato, le giornate delle due sorelle sono scandite da immancabili appuntamenti fissi, e proprio in quella routine sempre uguale a se stessa trovano la loro ragion d'essere, custodi di un tempo ormai andato, tramandato di generazione in generazione. Qualcosa però sta per cambiare: a Constance l'idea di uscire dalla casa non sembra più incutere la paura di un tempo, e l'arrivo del cugino Charles potrebbe alterare i consolidati equilibri.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Un'atmosfera inquietante, che diviene pian piano sempre più angosciante, accompagna il lettore pagina dopo pagina, e con grande maestria la Jackson porta avanti il racconto centellinando le informazioni su quella fatidica notte; il fatto stesso di scegliere come portavoce del resoconto del tragico evento lo zio Julian, l'anziano invalido sopravvissuto si al veleno, ma indubbiamente segnato nel corpo e nella mente, tanto da affermare un momento di ricordare perfettamente tutto l'accaduto, e il momento immediatamente successivo di non essere sicuro che sia successo o meno, contribuisce a lasciare costantemente nel dubbio.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Ma è soprattutto la lucida follia, fatta di rituali scaramantici e deliri di onnipotenza, a creare la suspense: quanto innescato sei anni prima, potrebbe scatenarsi di nuovo, e chi sarà stavolta la vittima?
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Viene così a crearsi una sensazione di pericolo costante all'interno della casa, a cui si aggiunge il pericolo che viene dall'esterno, da quei paesani con cui i Blackwood non hanno mai avuto un buon rapporto, e che non perdono occasione di manifestare il loro odio.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Non c'è nessuna via d'uscita: non si è davvero al sicuro né all'interno né all'esterno, schiacciati tra un Male tanto infantile quanto letale, e un Male adulto, cosciente che non esita a farsi violenza cieca.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Non c'è nessun salvatore, perché a prevalere è l'avidità, e l'amore stesso è morbosamente possessivo o colpevolmente indulgente.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Paradossalmente, però, nel finale viene tutto ribaltato in un antinomico happy ending: l'idea di un ritorno alla "normalità", di un abbandono di quella autoimposta segregazione viene definitivamente accantonata, e nella accettazione della reclusione si trova l'unica possibile felicità; solo in quel mondo creato dalla fantasia malata di una bambina che non è mai cresciuta, fatto di magie, rituali e scaramanzie, si è davvero al "sicuro", e Marricat è riuscita finalmente a "salvare" la sua adorata Connie.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
La prosa è estremamente scorrevole e il romanzo si divora in poco meno di un pomeriggio.
Una lettura sicuramente consigliata a chi è alla ricerca di un Gotico moderno, un horror che "non ha bisogno di alzare la voce".
I misteri di Chalk Hill by Lucia Ferrantini, Susanne Goga
1.0
Sin dall'introduzione fornita dall'editore, è chiaro il rimando all'intamontabile Jane Eyre di Charlotte Brontë, ma il risultato delude sin dalla prima comparsa in scena della protagonista, Charlotte Pauly, donna fin troppo spigliata per il suo ruolo e i suoi tempi.
Se l'intento dell'autrice è presentarci una "donna moderna" ante litteram, fallisce purtroppo, delineando una figura che non può che risultare posticcia. È se la sua dialettica con Sir Andrew vuole richiamare quella tra Jane e Rochester, in cui i silenzi valgono come e più delle parole, beh il confronto è davvero impietoso.
Il senso di anacronismo che scaturisce da ogni battuta e pensiero di Charlotte ci accompagna per tutto il libro, anche quando i rimandi a Jane Eyre lasciano il posto all'indagine sovrannaturale.
E anche in questa parte, le troppe ingenuità (capire quale sia il segreto di Chalk Hill non è certo arduo) rendono la lettura eccessivamente scontata, così come i risvolti sentimentali della vicenda.
Purtroppo non trovo motivi per consigliare la lettura.
Se l'intento dell'autrice è presentarci una "donna moderna" ante litteram, fallisce purtroppo, delineando una figura che non può che risultare posticcia. È se la sua dialettica con Sir Andrew vuole richiamare quella tra Jane e Rochester, in cui i silenzi valgono come e più delle parole, beh il confronto è davvero impietoso.
Il senso di anacronismo che scaturisce da ogni battuta e pensiero di Charlotte ci accompagna per tutto il libro, anche quando i rimandi a Jane Eyre lasciano il posto all'indagine sovrannaturale.
E anche in questa parte, le troppe ingenuità (capire quale sia il segreto di Chalk Hill non è certo arduo) rendono la lettura eccessivamente scontata, così come i risvolti sentimentali della vicenda.
Purtroppo non trovo motivi per consigliare la lettura.